Diritti - Hervé Andres
L’esclusione degli stranieri dal diritto di voto: punto nevralgico di contraddizione tra sovranità e democrazia
Hervé Andrés
Vorrei innanzi tutto ringraziare gli organizzatori di avermi invitato a questo Simposio, il cui titolo è abbastanza ambizioso “Fondamenti della Nuova Civiltà”. Si tratta proprio di questo, una nuova civiltà si sta fondando. Ed all’interno di ciò che si sta fondando la dimensione politica non è delimitabile.
Il mio intervento punta a dare un contributo alla riflessione politica sul tema di una nuova civiltà democratica. Partendo dalla questione del diritto di voto agli stranieri vorrei aprire delle piste per una rifondazione realmente democratica, al di là del principio di sovranità.
Comincerà dapprima il mio intervento con un’analisi della situazione che mostra come, globalmente, gli stranieri sono privati del diritto di voto. Anche se le eccezioni sono numerose, esse sono limitate. Il mio secondo punto sarà dunque di mostrare perché questa questione è importante per la democrazia. Poi porrò il problema della contraddizione fondamentale tra principio di sovranità e democrazia. Infine vorrei abbozzare delle piste di riflessione teorica verso una nuova democrazia.
1) la situazione attuale
Allora, subito, il primo dato: in generale, nel mondo, i residenti stranieri non hanno il diritto di voto. Si tratta di una regola generale, con numerose eccezioni ma che restano limitate. Due paesi su tre nel mondo non danno diritto di voto agli stranieri. E un terzo dei paesi del mondo accorda il diritto di voto a certe categorie di stranieri, almeno in alcune elezioni. E’ comunque importante: un paese su tre nel mondo. Non svilupperò qui l’inventario di tutte le situazioni ma si possono distinguere rapidamente alcuni modelli:
In una quarantina di paesi tutti i residenti stranieri, dopo un certo periodo di residenza, possono votare ad alcune elezioni (spesso le comunali ma a volte anche in elezioni intermedie o nazionali). Per esempio in Irlanda, da parecchio tempo, gli stranieri possono votare alle comunali. E, in Uruguay, possono votare a tutte le elezioni.
Poi ci sono certi paesi che accordano il diritto di voto sola a una certa parte dei residenti stranieri, sulla base di certi criteri. Il Regno Unito dà diritto di voto a tutte le elezioni a tutti i cittadini del Commonwealth (in genere i cittadini delle ex colonie britanniche), il che rappresenta la maggioranza ma non la totalità degli stranieri residenti nel Regno Unito. L’Unione Europea ha istituito un sistema comparabile che impone ai paesi membri di dare il diritto di voto a tutti i cittadini europei, cioè a tutti coloro che hanno la nazionalità di un paese della UE. Per esempio in Italia o in Francia solo i cittadini europei hanno diritto di voto e solo nelle elezioni comunali ed europee. In Spagna il criterio è la reciprocità. Se i paesi stranieri concedono il diritto di voto ai cittadini spagnoli allora i loro cittadini beneficiano del diritto di votare alle comunali in Spagna. E poiché la maggior parte dei paesi latinoamericani danno diritto di voto agli stranieri così la maggior parte dei latini hanno ora diritto di voto alle municipali in Spagna. Ma non i marocchini (non al momento in ogni caso) né la maggioranza degli africani.
Dunque si tratta di una prima modalità di apertura: certi paesi danno il diritto di voto a tutti gli stranieri ed altri solo a certe categorie di stranieri.
Seconda modalità d’apertura: il livello delle elezioni. Molti paesi danno il diritto di voto solo alle elezioni locali. E’ una specie di mezza soluzione che consiste nel tenersi la sovranità nazionale aprendo le porte della cittadinanza locale. Personalmente penso che sia una via con aspetti concreti interessanti, meglio che niente, ma che questo instauri un nuovo tipo di discriminazione e che sia un modo di delimitare i problemi senza andare alla questione di fondo. Infine, certi paesi danno diritto di voto agli stranieri solo alle elezioni locali ma ce ne sono comunque 25 che danno il diritto di voto agli stranieri alle elezioni nazionali…
Resta il fatto che la maggioranza, la maggior parte dei paesi del mondo, compresi quelli che si presentano come democratici considerano che per avere il diritto di voto bisogna avere la nazionalità di quel paese. E gli stranieri fuori.
Per altro nessun paese al mondo accorda una stretta uguaglianza di diritti politici tra i suoi cittadini e gli stranieri residenti. Anche se hanno un diritto di voto praticamente nelle stesse condizioni, ci sono esclusioni rispetto l’eleggibilità. In Nuova Zelanda gli stranieri possono votare alle elezioni nazionali ma non possono essere eletti.
Ciò che domina nei fatti e nelle norme in vigore, ed ancor più nelle menti e nelle rappresentazioni è il paradigma d’esclusione degli stranieri dalla sfera politica. Questo sembra in generale assolutamente “normale” (scrivo questa parola tra virgolette), escludere gli stranieri dai diritti politici. Questo sembra normale. Questo sembra essere la regola generale. E il diritto di voto agli stranieri sembra essere un’eccezione, certo frequente, ma di portata limitata.
2) un problema di democrazia
Ciononostante, e sarà il mio secondo punto, il diritto di voto è importante per la democrazia.
Questa proposizione “il diritto di voto è importante per la democrazia” non è ovvia. Non è così evidente. Ai tempi dei Greci la democrazia antica preferiva l’estrazione a sorte come modo di designazione delle persone incaricate di funzioni pubbliche. L’estrazione a sorte presenta il vantaggio di mettere i cittadini su un piano di stretta uguaglianza. Tutti hanno la stessa possibilità di essere estratti. Questo metodo di designazione potrebbe essere utile in certe situazioni.
Il voto è un modo di decisione che permette sia di designare dei rappresentanti (democrazia rappresentativa) sia di decidere direttamente (si risponde “sì” o “no” a una domanda, per esempio, democrazia diretta).
Il punto più importante è che il voto è uno strumento di decisione per una collettività.
Se non c’è collettività non c’è voto. Se sono solo e mi chiedo se vado al mare o in montagna, decido e ci vado. Ma se sono con la mia famiglia e ci si chiede se andiamo al mare o in montagna può darsi che in questo caso discuteremo ed arriveremo a una decisione collettiva, forse per consenso o magari attraverso qualche forma di voto.
Quel che è importante comprendere è che il voto ha senso solo se c’è una collettività. E la politica comincia appunto con la pluralità. E’ perché sono molti che gli uomini e le donne sono attori politici. E’ perché siamo molti, è perché siamo tanti che dobbiamo trovare dei meccanismi di funzionamento collettivo. E poiché ci sono delle decisioni da prendere ci vuole un meccanismo di decisione per grandi numeri. E lì, globalmente, i Greci avevano studiato bene la questione. O c’è una sola persona che decide (il re che può diventare un tiranno). O un piccolo numero di persone che decidono (i più ricchi, i più saggi, i migliori). O tutti, la moltitudine che decide (e questa è l’invenzione della democrazia, il potere del popolo).
Ecco qua una prima funzione del voto che si può definire strumentale. Il voto è uno strumento per prendere decisioni.
Ma c’è una seconda funzione che a mio avviso è più importante e che è di ordine simbolico. In politica, come in molti altri campi, il simbolico è molto importante.
La ritualizzazione delle operazioni di voto mostra bene ciò che è in gioco quando si vota, non è solo il risultato pratico (la decisione “sì” o “no”, “Obama” o “Mac Cain”), c’è anche una grande operazione simbolica in cui una comunità prende coscienza di se stessa.
Il voto è ciò che marca l’appartenenza ad una collettività. Se voto vuol dire che sono membro di questa collettività: la comunità politica. Se non posso votare è perché non sono membro di questa collettività. Qual è il mio status, qual è il mio rapporto con gli altri?
Così quello che è in gioco è una questione di delimitazione e, dunque, di definizione della comunità stessa. Tracciare d’un modo o di un altro le frontiere della comunità politica è concepire tale comunità in un modo o in un altro. La comunità politica non è una comunità come le altre, non è qualcosa di naturale, di dato per essenza. E’ un certo tipo di legami che sono tessuti tra i membri, è il mutuo riconoscersi tra uomini e donne in quanto attori plurali e singoli del loro comune destino. Ciò che li definisce è la loro uguaglianza e la loro libertà. Non è una semplice aggregazione di individui che vivono gli uni accanto agli altri. La politica è lo spazio in cui gli attori cercano di risolvere i conflitti superando la violenza.
Fondamentalmente escludere gli stranieri dal diritto di voto significa escluderli dalla comunità politica. E questo porta a definire la comunità politica in un certo modo. All’inverso riconoscere il diritto di voto agli stranieri significa includerli nella comunità politica. E, dunque, definire la comunità politica in un altro modo.
Esaminiamo questi due modi. Da un lato l’esclusione degli stranieri. Dall’altro la loro inclusione. E’ qui che arrivo al problema della relazione tra sovranità e democrazia.
3) Sovranità contro democrazia
Per iniziare: la concezione tradizionale consiste nell’escludere gli stranieri dal diritto di voto. In nome di che? In nome della nazionalità. Che cos’è la nazionalità? E’ un termine ambiguo che pone dei problemi quando si passa da una lingua ad un’altra. Ci sono due dimensioni. Da un lato di tratta di un’identità collettiva collegata a un gruppo specifico, la nazione. In questo senso nazionalità ha un senso quasi culturale. D’altra parte si tratta di uno status giuridico che lega una persona ad uno Stato sovrano. E’ questo secondo senso, giuridico, quello che è importante nel nostro problema. In effetti se il diritto di voto è riservato a quelli che hanno la nazionalità, quello che conta non è l’identità culturale ma il fatto di avere o no la nazionalità da un punto di vista giuridico. Se avete la nazionalità italiana potete votare alle elezioni italiane, anche se siete d’origine africana, anche se non vi sentite italiano, anche se gli altri italiani non vi considerano italiano. Il problema dell’identità è un altro problema. Dal punto di vista del diritto di voto ciò che conta è lo status giuridico.
Ma cos’è la nazionalità del punto di vista giuridico? Che cos’è questo status giuridico? Un insieme di diritti e di doveri che vi legano a uno Stato sovrano. E’ un contratto tra due persone su un piano di uguaglianza? Niente affatto. La nazionalità vi è imposta dalla vostra nascita, in funzione della situazione personale (il luogo di nascita, la nazionalità dei vostri genitori). Poi, a seconda dell’evoluzione della vostra situazione, potete pretendere di chiedere la nazionalità di un paese. Lo Stato non è mai obbligato ad accordarvela. Non è quindi mai la libertà per prima. La vostra nazionalità è determinata dal caso della nascita e sono sempre le regole dello Stato che vi si impongono sia per ottenere che per perdere la nazionalità. Peraltro è molto difficile abbandonare volontariamente una nazionalità. E si è visto bene, nel XX secolo, cosa voleva dire far dipendere i diritti umani dagli Stati sovrani. Milioni di persone si sono ritrovati apolidi. Ed il peggior esempio è quello della Germania nazista che come Stato sovrano aveva totale potere di levare la nazionalità a milioni di ebrei, che si sono ritrovati senza alcun diritto. La stessa cosa ha fatto il regime di Vichy in Francia. In modo del tutto legale.
Così la nazionalità mette l’essere umano nella totale dipendenza dell’arbitrarietà di uno Stato. Certo, non tutti gli Stati sono nazisti. Ma il fatto che uno Stato possa diventare nazista – e d’altra parte numerosi Stati hanno preso quella direzione e continuano a farlo anche oggi – mostra il pericolo che c’è nel far dipendere i diritti delle persone dall’arbitrarietà di uno Stato.
La nazionalità è la concretizzazione al livello delle persone della sovranità degli Stati. Che cos’è la sovranità? Etimologicamente è un principio di superiorità. Il sovrano è un superiore. E’ qualcuno che impone la sua volontà. E’ il principio di legittimazione del potere monarchico e che, curiosamente, è riuscito a mutare nel quadro delle democrazie inventate negli ultimi due o tre secoli.
La sovranità del sovrano è diventata la sovranità del popolo o la sovranità nazionale. Si è pensato che la democrazia moderna fosse la sovranità del popolo e, in ambito nazionale, la sovranità nazionale. Sarebbe ormai il popolo ad essere sovrano. La Legge sarebbe l’espressione della volontà generale. Conoscete questa finzione, che non nego dica una parte della verità, ma solo una parte.
Ma se è il popolo ad essere sovrano com’è che una parte di esso è esclusa? In effetti se gli stranieri sono esclusi dal popolo sovrano vuol dire che la sovranità dello Stato (che si traduce con la definizione della nazionalità, con il tracciato delle frontiere tra quelli che ci sono e quelli che non ci sono) è previa alla costituzione del popolo. Non è dunque il popolo ad essere sovrano ma lo Stato, in tutto e per tutto, cioè l’organizzazione di una minoranza che impone previamente il suo potere ad una maggioranza.
4) La democrazia al di là della sovranità
Esaminiamo, per finire, l’altro modo di concepire la comunità politica, quella che include gli stranieri L’idea è che senza avere la nazionalità dello Stato gli stranieri siano comunque dei cittadini, cioè degli attori riconosciuti della politica là dove si gioca.
Di fronte al concetto di nazionalità si può opporre il concetto di cittadinanza. Di fronte al concetto di sovranità, quello di democrazia.
“Cittadinanza”. La parola pone ancora più problemi passando da una lingua all’altra. In inglese “citizenship” ha di fatto perso ogni senso autonomo e significa nazionalità come status giuridico che lega una persona a uno Stato. Il italiano credo che “cittadinanza” sia ugualmente utilizzato nello stesso senso di status giuridico mentre “nazionalità” esiste e può essere utilizzata nello stesso senso. In spagnolo come in francese abbiamo i due termini distinti (nacionalidad e ciudadania, nationalité et citoyenneté).
L’idea di una cittadinanza sconnessa dalla nazionalità corrisponde a un ritorno al senso propriamente politico del termine di cittadinanza. Questo riporta alla civitas (termine romano) e dunque alla polis (termine greco). La cittadinanza è la partecipazione alla vita della civica. La civitas non è la città, il villaggio, l’agglomerazione urbana. La civitas è lo spazio politico.
Riconoscere che gli stranieri (poco importa da dove vengono, poco importa se hanno ancora legami con il loro paese d’origine) sono membri della comunità politica è definire questa comunità politica non in funzione della nascita, non in funzione dell’arbitrio delle regole di uno Stato, ma a partire dalla partecipazione ad uno spazio politico.
A partire dal momento in cui gli stranieri sono qua e partecipano a questo spazio politico, a partire dal momento in cui sono coinvolti nel destino di questa collettività, che devono rispettare le leggi (e, come spesso si ricorda, pagare le tasse), allora, sembra logico riconoscergli il diritto di voto, che è lo strumento pratico e simbolico della decisione politica.
Andare in questa direzione è ricongiungersi con il potenziale universalista e necessariamente rivoluzionario della democrazia La democrazia cerca sempre di uscire dal quadro stabilito. Non saprebbe limitarsi in una definizione formalista. Al contrario conviene ricordare che questo termine è all’origine di un insulto per designare una forma di potere dove governano coloro che non hanno nessun titolo per governare (quelli che non sono ricchi, appunto). La democrazia, all’origine, è una rottura nell’ordine naturale. Implica sempre una messa in discussione del potere. Non è mai finita, arrivata. E’, al contrario, un orizzonte, una linea di comportamento, un’esigenza contestataria. E, appunto, la storia della democrazia è la storia della lotta per la conquista dei diritti degli esclusi. Il suffragio universale è una della manifestazioni di questa storia, dove si è dovuto far retrocedere sempre più lontano i limiti della dominazione, in modo che gli operai, gli illetterati, i poveri, le donne, gli indigeni colonizzati, gli schiavi ed ex-schiavi, i giovani ecc. potessero votare.
Credo che questa storia continui con la lotta per il diritto di voto agli stranieri.
Sul piano teorico la questione del diritto di voto agli stranieri è un indicatore dell’impasse in cui è rinchiusa la democrazia, se resta dentro a una definizione formalista, nel quadro del diritto di sovranità. Fondamentalmente il principio di sovranità è un principio di dominio, di imposizione della volontà di uno solo. La finzione del popolo sovrano trova oggi i suoi limiti. Nel XX secolo la sovranità dello Stato ha permesso i più grandi massacri della storia dell’umanità, nel rispetto delle regole formali dello Stato. Nel XXI secolo la sovranità degli Stati non permette che i popoli siano protetti dalla rapina della globalizzazione, le multinazionali impongono le loro leggi e la sovranità non sussiste più altro che nei suoi aspetti puramente repressivi, con l’obiettivo di rendere ancora più precarie le esistenze di milioni di migranti sul pianeta…
So bene che certi stati tentano, soprattutto in America del Sud (penso all’Ecuador, alla Bolivia, al Venezuela per esempio) di costruire delle reali democrazie tornando all’ideale della sovranità popolare. Osservo queste esperienze con interesse ed ammirazione. Ma non vedo come, in che termini, il principio di sovranità (anche popolare) sia conciliabile con l’esigenza democratica, nella misura in cui è l’espressione dell’imposizione di una volontà, della volontà di uno solo. La finzione del popolo sovrano ha sicuramente permesso di avanzare. Ma penso che l’avvenire della democrazia risieda nel rendersi conto del carattere plurale degli esseri umani e delle loro volontà particolari. La necessità di costruire qualcosa di comune, che sia alla dimensione di un villaggio, di una regione o su scala planetaria non può essere presa in considerazione se non in una prospettiva assolutamente universalista. Il diritto di voto agli stranieri senza alcuna limitazione mi sembra uno dei mattoni essenziali della futura democrazia.