Educazione - Cinzia Mion
Educare alla cittadinanza come etica pubblica
Cinzia Mion
Che in Italia esista un grave deficit di etica pubblica non è un dato che fa notizia. E nemmeno fa notizia che tale deficit continui ad aggravarsi attraversando governi, epoche e varie tangentopoli o giù di lì, ingenerando un po’ alla volta la convinzione che non si possa fare nulla per contrastare tale deriva.
Fa notizia semmai trovare qualcuno che osa ancora indignarsi, o definire la necessità di educare all’etica pubblica addirittura un tema rivoluzionario, tanto è forte l’assuefazione all’odore della corruzione e dell’ingiustizia sociale, da ridurre a rarità l’individuazione di qualcuno che trova tale aspetto del popolo italiano qualcosa di pericoloso per l’assetto democratico del Paese.
Fa notizia il pensare che “guarire” da tale malattia, che già Edward Banfield negli anni cinquanta aveva definito “familismo amorale”, possa iniziare dalla scuola e non quindi dalla famiglia, impossibilitata, in genere , ad autopercepirsi in questa sua attitudine patologica. Semmai la famiglia va coinvolta nel progetto di educazione alla cittadinanza come etica pubblica, dopo che i docenti hanno fatto chiarezza al loro interno, dopo che avranno capito che non si tratta dell’etica in genere o della morale privata, di cui sempre gli insegnanti si sono considerati le vestali. Dopo che saranno diventati consapevoli che l’etica pubblica va oltre.
Cercheremo pertanto di analizzare alcune dimensioni del deficit in questione, passando poi a tentare di definire degli accorgimenti educativi utili ad arrivare ad una accettabile conoscenza del problema, al fine di poter determinare una auspicabile inversione di tendenza.
Indicatori del deficit
Il livello di indifferenza diffusa che caratterizza i rapporti interpersonali, al di fuori della famiglia, ha raggiunto un grado preoccupante. Possiamo assistere ad uno stupro per strada o ad un’aggressione senza sentirci “interpellati” e fortemente spinti ad intervenire. Possiamo non farci minimamente turbare dalle immagini dell’uomo sofferente e tormentato, dalla morte in diretta cui ci accostiamo quasi con voyeurismo, senza sentire più di essere accomunati dalla stessa identità umana e terrestre, come direbbe Edgar.Morin.
A proposito della responsabilità che ognuno di noi dovrebbe attivare nei confronti dell’aspetto nudo ed indifeso dell’altro, uomo concreto e oppresso, Emmanuel Levinas afferma che “il volto dell’altro mi interpella”, dove il termine interpellare scava dentro alle viscere con un richiamo fortissimo alla solidarietà più arcaica e quasi indicibile. Perché ciò possa avvenire deve esistere però nella mente e nel cuore di chi si fa interpellare la categoria dell’alterità
Ora dovremmo perciò chiederci se esiste ancora questa categoria oppure se si è dissolta, spazzata via dal nostro modo di vivere così autocentrato e pervaso da un narcisismo imperante.
Zygmunt. Bauman afferma che l’affievolirsi dei legami sociali è funzionale all’espandersi dei poteri globali per cui la principale fonte della loro forza, a garanzia della propria invincibilità, risulta essere una specie di “fluidità” che elimina tutte le barriere, comprese le reti dei rapporti. Sarebbe questa la modernità liquida, quella specie di effetto collaterale che toglie appigli e rende tutto più mobile, sdrucciolevole, evasivo.
Alla base di tutto ciò sembrano esserci le politiche neoliberiste degli ultimi vent’anni che, esaltando le libertà individuali, a scapito della dimensione collettiva, hanno indotto uno sgretolamento del tessuto sociale.
Ma questa libertà asservita solo al pensiero unico del mercato e, quindi, ai modelli del consumismo più sfrenato, sostenuto dal diffuso conformismo, ha come effetto un senso di smarrimento, di impotenza collettiva, di solitudine del cittadino globale ma, quel che è più grave, della paralisi della politica.
In questo panorama sconsolato e sconsolante, afferma Bauman, l’uomo dell’Occidente si sente sempre più spaventato, in preda al problema della sua sicurezza personale.
Lo sfacciato perseguimento degli interessi personali, legittimato a tutti i livelli , ha preso il posto di qualsiasi moto di solidarietà e di cura nei confronti del bene comune., su cui manca addirittura una riflessione di tipo mentale.
Il concetto di bene comune è recentemente tornato alla ribalta con il neocontrattualismo. che occupa un posto centrale nell’ambito della recente filosofia politica.
John Rawls, uno dei più significativi rappresentanti di tale corrente, afferma che lo scopo del bene comune è quello di massimizzare l’uguaglianza, definendo in modo razionale un principio universale di giustizia, della giustizia distributiva nel senso dell’equità. Per poter ottenere tale risultato si devono riformulare le regole del gioco, al fine di implementare un agire non competitivo ma cooperativo, che massimizzi, insieme all’interesse individuale, anche il bene collettivo, che è cosa diversa dalla semplice somma degli interessi individuali.
Il concetto di bene comune indica infine una esigenza propria di una comunità organizzata, messa chiaramente in luce dalla scienza politica: senza un minimo di consenso sui valori ultimi della comunità e sulle regole della coesistenza, la società rischia di sfaldarsi e di trovare la propria integrazione sociale solo nella forza.
Il familismo italiano
Dicevamo all’inizio che il deficit di etica pubblica deriva anche da un familismo italiano consolidato. Recentemente Antonio Gambino ha definito questa particolare malattia degli italiani “familismo materno”, intendendo con ciò una mentalità materna-familiare, ovvero una psicologia che ha privilegiato la figura della madre la quale”guarda con sospetto tutto ciò che avviene all’esterno”.
Gambino, a partire da ciò, individua i particolari difetti degli italiani nella noncuranza di fronte alla legge, nel clientelismo, nella mancanza del senso dello Stato, nella corruzione, nel trasformismo, nella ricerca del protettore e via dicendo.
La tesi di Gambino consiste nel far risalire le cause di questi difetti storici del popolo italiano alla mancanza della rivoluzione protestante nel nostro paese per l’importanza che ha avuto la presenza del papato. Rifacendosi a Max Weber ed alla sua analisi sulla questione cattolica, l’autore stabilisce una specie di legame perverso “tra la mentalità italiana e la confessione, intesa come passaggio obbligato per ottenere perdono” Questa scorciatoia bloccherebbe la crescita di una cultura rispettosa della collettività e consoliderebbe l’ottica familistica materna che porta al disprezzo della res publica.
Al di là delle cause analizzate da Gambino, su cui potremmo essere o non essere d’accordo, rimane comunque il fatto che dobbiamo fare i conti con questa mentalità e con la situazione che questa porta con sé. Qualcuno parla di indispensabile “trasformazione antropologica” per poter ottenere una svolta su questo fronte anche se, ogni volta che si fa riferimento a tale processo, c’è subito qualche arricciamento di naso…
Noi comunque crediamo che il compito così difficile e delicato di educare alla cittadinanza come etica pubblica spetti alla scuola.
La scuola e l’educazione alla cittadinanza
La scuola che si inoltri su questo percorso deve innanzi tutto fare i conti con alcuni aspetti che derivano dalla mancanza proprio di etica pubblica al suo interno. La mancanza che purtroppo caratterizza l’istituzione scolastica si può evincere attraverso l’osservazione della pratica del fare finta e l’implicita considerazione positiva della furbizia. A volte addirittura di tali comportamenti risulta essere inconsapevolmente occasione di trasmissione la scuola stessa. Il riferimento alla consuetudine della copiatura in classe è perfino banale ma rende l’idea di come imbrogliare il professore venga considerata un’ abitudine consolidata di cui nessuno osa mettere in dubbio la legittimità, semmai il problema è quello di non farsi scoprire. A volte è perfino il professore a fare finta di non sapere che i suoi allievi copiano le traduzioni di greco o di latino dal traduttore…E non si tratta di mettere in conflitto l’etica della solidarietà con quella della leale competizione: in nome della prima infatti si può mettere in atto l’aiuto reciproco tra compagni e si dà una mano a capire a quelli più deboli, in nome della seconda, durante la procedura di valutazione delle prestazioni, le regole della solidarietà vanno invece sospese, perché il copiare significa barare.
Urge pertanto che i docenti diventino consapevoli che la scuola è la prima istituzione pubblica con cui un soggetto in evoluzione entra in contatto e che nella scuola avviene una specie di inprinting che lascia il segno.
L’elemento decisivo è il rapporto tra la comunicazione esplicita e la comunicazione implicita, tra le prediche e le pratiche. Diventa determinante infatti, per la corretta impostazione di qualsiasi etica, che ci sia coincidenza tra il codice esplicito e quello implicito, pena il radicarsi dell’ipocrisia e naturalmente del fare finta .La scuola, nel bene e nel male, in questo senso diventa una palestra ineguagliabile. Più della famiglia dove le regole dell’etica privata purtroppo spesso, non sempre, sono fluttuanti e risentono degli umori dei suoi componenti, a volte rigidamente imposte a volte dimenticate in modo lassista.
Una corretta educazione alla cittadinanza, intesa nell’accezione dell’etica pubblica, e non semplicemente della buona educazione- anche se con i tempi che corrono non è nemmeno questa da deprezzare- fa i conti non solo con le tematiche fin qui affrontate, ma anche con un concetto molto significativo che è la giustizia sociale.
Bisogna tenere presente che a scuola si vive la prima esperienza di essere trattati, in modo corretto o scorretto, come titolari di diritti uguali per tutti. Se invece la scuola diventa il luogo, nella mentalizzazione degli studenti, dove si compiono ingiustizie ( subite direttamente o dai compagni) incomincia il rifiuto delle istituzioni e del loro modo di operare.
La scuola insegna le regole ma abbiamo visto che implicitamente, tollerando la furbizia e il fare finta, insegna anche a non rispettarle.
Un rituale importante a questo proposito è la valutazione. Se non vengono spiegati i criteri con cui questa viene applicata, questa diventa l’occasione in cui comincia a costruirsi l’idea che l’autorità pubblica sia arbitraria, inappellabile ma soprattutto manipolabile soltanto attraverso comportamenti opportunistici, di remissività e sottomissione.
Questi atteggiamenti sono preludio alla sudditanza non certamente alla cittadinanza !
L’etica pubblica e il bene comune.
Il contesto della classe, la sua organizzazione, le relazioni cooperative o competitive che al suo interno vengono sollecitate o inibite, la comunità di pratiche e di diversità, realizzata tra gli allievi, costituiscono una società in miniatura, educante o diseducante. Di questo aspetto fa parte anche la considerazione che viene attribuita al concetto di bene comune.
Sollecitare infatti la categoria mentale e poi etica di esso diventa fondamentale e soprattutto diventano determinanti le strategie che si utilizzeranno per farlo diventare atteggiamento e comportamento usuale.
Imparare a chiedersi e ad autointerrogarsi se le proprie azioni e richieste sono lesive o limitanti i diritti degli altri oppure aiutano a realizzare una corretta coscienza civile, dovrebbe diventare un abito mentale.
A disposizione di tutti a scuola e nelle classi ci sono dei “beni comuni” che possono essere suppellettili, sussidi, e fin dalla scuola dell’infanzia si viene educati alla cura per la loro massima conservazione ed utilizzazione, in quanto appunto res publica.
Attivare una consapevole attenzione curante per sé, per gli altri e per l’ambiente, tra cui gli oggetti di tutti i giorni, non è per niente scontato o banale. Gli insegnanti della scuola dell’infanzia e della scuola primaria sanno bene quanta fatica costa insegnare questo atteggiamento ai bambini di oggi, abituati a consumare ed usare tutto con la più grande non-curanza.
Poi ci sono materiali di facile consumo che vanno messi a disposizione di tutti . Perché questo avvenga, ognuno dovrebbe essere messo nella condizione di verificare che le risorse sono esauribili, per cui non durano all’infinito, e in conseguenza di ciò ognuno deve imparare a rinunciare a qualcosa perché tutti possano accedervi.
La rinuncia per gli altri, insieme a tutti i riti di turnazione, sono modi per far capire che la rinuncia non comporta nessuna perdita, in quanto la prima è ascrivibile all’avere e la seconda invece all’essere.
Imparare a sopportare la rinuncia, capendo che non avviene nessuna perdita del sé, ma anzi ci si scopre con una identità più forte e solidale, diventa un obiettivo formativo essenziale in una società dove il possedere è già dimostrazione di valore.
Il bene comune non sempre è un dato, spesso questo invece va costruito e per poterlo fare bisogna passare attraverso pratiche che aiutino a mettere il tornaconto personale e la propria avidità in secondo piano.
Man mano che i ragazzi crescono e si passa ad ordini di scuola successivi diventa di fondamentale importanza la formazione di competenze auto-riflessive ed argomentative in questioni di etica pubblica.
A questo scopo servono le analisi di casi concreti che possono presentare dei dilemmi etici desunti dalla vita pratica quotidiana.
Diventeranno interessanti le discussioni in classe su tematiche dove in modo interattivo si pratica il metodo democratico dello scambio di opinioni, essendo in grado di articolare e sostenere le proprie idee attraverso l’argomentazione e la controargomentazione, rispettando però quelle degli altri
Le tematiche di attualità che si prestano al gioco democratico e contemporaneamente a costruire una coscienza etica nel senso fin qui descritto riguardano il rapporto tra l’etica e la biologia, l’economia, l’ambiente, la politica e le problematiche della comunicazione fino al rapporto con le generazioni future,
Non spegnete l’utopia
Non si può pretendere che la scuola riesca a colmare il deficit di etica pubblica del Paese ma possiamo coltivare l’utopia di tentare di formare delle “minoranze virtuose”, come già auspicava Bobbio. Minoranze virtuose in grado di promuovere e difendere sia l’etica pubblica che la democrazia, che ne è il fine e il presupposto con i suoi valori laici e forti di uguaglianza, giustizia sociale, solidarietà, libertà, pace e tolleranza. Chi è in grado di ap-prezzare il significato della cittadinanza sa attribuirle un prezzo ed è disposto orgogliosamente a pagarlo, pur di non riconoscersi nella sudditanza ed asservirsi. Sa infatti rinunciare a determinati privilegi o affronta dei disagi, se ciò gli permette l’autonomia di giudizio, il pensiero critico e la realizzazione dei propri ideali.